Più che nuova spesa, servirebbe maggiore coordinamento nella spesa odierna, suddivisa in troppi rivoli e senza quelle economie di scala che invece possono fare gli Stati Uniti.
Da “ReArm Eu” a “Readiness 2030”: il presidente della Commissione Europea, la baronessa Ursula von der Leyen, ha deciso una ridenominazione del piano per riarmare l’Ue, optando per un nome meno bellicista, “Readiness 2030”, Pronti al 2030, rispetto a quello precedente che aveva suscitato il mal di pancia delle ali pacifiste a prescindere.
La decisione di chiamare il piano da 800 miliardi di euro (stimati) di investimenti nella difesa comune “ReArm Eu”, riarmare l’Ue, è piaciuta assai poco in alcune capitali, specie nell’Europa Meridionale, tanto che il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, del gruppo Ecr, e il primo ministro spagnolo, il socialista Pedro Sanchez, hanno entrambi criticato il nome, con una insolita convergenza di opinioni.
«La base della discussione – ha detto von der Leyen al termine del Consiglio Europeo – è stata la presentazione del Libro Bianco sulla difesa. E il Libro Bianco ha un nome che dice tutto, “Readiness 2030”. È un ambito più ampio: non c’è solo il finanziamento». Ci sono anche «le priorità, l’infrastruttura, la mobilità militare, le lacune di capacità, dai missili ai droni all’artiglieria e altri elementi. E c’è anche la guerra elettronica moderna. E’ un ambito molto più ampio, l’approccio che stiamo adottando: di qui il nome “Readiness 2030”».
La prossima settimana nel collegio, ha aggiunto von der Leyen, «avremo la strategia di preparazione, che mostra anche la seconda tappa di “Readiness 2030”, ovvero che dobbiamo essere preparati per potenziali crisi, tra cui anche, ad esempio, disastri naturali e altre crisi che dobbiamo gestire. In effetti abbiamo iniziato in modo relativamente ristretto, ma ora il concetto è cresciuto, o è maturato, in “Readiness 2030”».
Il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, e della Commissione, Ursula von der Leyen, «hanno condiviso l’accordo del Consiglio europeo secondo cui l’Europa deve intensificare i suoi investimenti in sicurezza e difesa». In questo contesto, «hanno fatto riferimento a “Readiness 2030”, una tabella di marcia volta a garantire che l’Ue abbia una base industriale di difesa e capacità di difesa per agire come deterrente credibile» e «hanno presentato i meccanismi di finanziamento proposti per gli investimenti richiesti nella difesa e le opportunità per i Paesi partner che ne derivano».
Per Costa e von der Leyen «il primo, la clausola di salvaguardia nazionale, libererà fino a 650 miliardi di euro di spazio fiscale nei bilanci nazionali degli Stati membri. Non avrà condizioni in termini di origine dell’equipaggiamento di difesa. L’equipaggiamento militare dei paesi partner può quindi trarne beneficio diretto. Il secondo, “Safe”, fino a 150 miliardi di euro in prestiti. Norvegia e Islanda possono già partecipare direttamente, poiché sono membri del mercato unico dell’Ue. Altri Paesi, come Regno Unito, Canada o Turchia, possono fornire immediatamente fino al 35% di un prodotto di difesa. Per aumentare la partecipazione industriale oltre il 35%, sono necessari un partenariato per la sicurezza e la difesa e un successivo accordo di associazione».
Da “ReArm Eu” a “Readiness 2030”: Consiglio e Commissione Ue sorvolano sul fatto che gli attuali trattati non prevedono l’esistenza di un esercito europeo unitario, ma un più semplice coordinamento tra 27 diversi apparati nazionali di difesa, che in molti casi va a sovrapporsi con l’ambito Nato. Proprio in questa situazione si evince uno stato degli armamenti europei decisamente variato, poco coordinato e con troppe differenze, tanto da renderne difficile la reale interoperabilità.
Nel 2017 erano in uso nell’Ue 178 tipi di sistemi d’arma diversi contro i 30 negli Stati Uniti, tra cui 17 tipi carri da combattimento (1 negli Stati Uniti), 29 tipi di cacciatorpedinieri e fregate (4 negli Stati Uniti) e 20 tipi di caccia (6 negli Stati Uniti). Da allora c’è stato qualche progresso, ma la frammentazione resta alta. Secondo il rapporto “The Military Balance 2025” dell’International Institute of Strategic Studies (IISS), nel 2024 in Europa erano operativi 13 diversi tipi di carri da combattimento (per un totale di 4.215 carri). Tra questi, 2.140 (51%) appartengono alle due varianti (A1 e 2A) del panzer tedesco Leopard. Il resto è perlopiù di fabbricazione sovietica (14%) e statunitense (15%). I tre principali Paesi manifatturieri di armi (Germania, Francia e Italia) utilizzano ciascuno un diverso carro. Il rapporto indica anche che nell’Ue sono operativi 14 diversi modelli di caccia, per un totale di 1.562 velivoli, di cui 312 Eurofighter Typhoon (il 20%). La maggior parte degli altri caccia è di produzione americana, in particolare F-16 (22%), seguiti dai Rafale francesi (11%).
Da “ReArm Eu” a “Readiness 2030”: più che fare nuova spesa, per altro di difficile attuazione per realtà ad alto debito corrente come Francia e Italia mentre è più facilitata la Germania, sarebbe meglio affrontare e coordinare quei 547 miliardi annui cui ammonta la spesa militare dei 27 paesi Ue secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università Cattolica per fare economie di scala molto più accentuate. Ma per la politica di Bruxelles questo è un aspetto di molto difficile realizzazione: molto meglio il gioco delle tre carte e del cambio a uzzolo dei nomi dei vari piani di spesa che sembrano tagliati per le esigenze di business della Germania che per una reale Unione europea.
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