venerdì 18 Aprile 2025

Dazi Usa: effetti tutti negativi?

O sono un rimedio, sicuramente duro e rude, contro quegli stati che praticano concorrenza sleale in stipendi, sicurezza, democrazia, trasparenza e regole ambientali.

Gli effetti dei dazi Usa sulla manifattura mondiale tramite l’applicazione di gabelle variabili a seconda del rapporto di commercio equo nei suoi confronti sono sicuramente un rimedio duro e rude se non rozzo, ma parerebbe avere una certa efficacia per smuovere quei paesi che da almeno un ventennio praticano concorrenza sleale nei confronti degli Stati Uniti e pure dell’Unione europea (anche se questa pare avere troppe fette di mortadella sui propri occhi per accorgersene), tanto da avere prodotto effetti negativi anche all’interno delle economie consumatrici dei prodotti realizzati laddove la manifattura costa percentuali risibili di quelle delle manifatture occidentali.

Di fatto, il “Liberation Day” scatenato da Donald Trump finisce con il colpire soprattutto quegli staticacciavite” che assemblano prodotto per conto delle grandi multinazionali statunitensi che in casa concepiscono, sviluppano e commercializzano il prodotto lucrando su giganteschi effetti leva, specie nel campo del costo del lavoro e degli oneri sociali ed ambientali, delocalizzando la produzione dove è più conveniente.

L’Asia, che è il centro della delocalizzazione Usa (e pure europea) rappresenta il caso più clamoroso. Molte aziende americane – per esempio Apple – hanno spostato le loro operazioni manifatturiere fuori dagli Usa, partendo prima dalla Cina, per poi allargarsi verso l’India e i Paesi dell’Asean, in particolare Vietnam, Cambogia, Thailandia e Laos, dove i costi di manodopera sono bassissimi.

Tra il 2018 e il 2022, le esportazioni dalla Cina verso gli Stati Uniti sono diminuite del 10%. Quelle dall’India sono aumentate del 44%, del 65% dai dieci Paesi dell’Asean. I dazi di Usa ora cambiano lo scenario, perché l’export dal Vietnam è colpito da una gabella del 46%, la Cambogia del 49%, la Thailandia del 36%. Lo stesso vale per le grandi multinazionali dell’abbigliamento che lucrano su ricarichi giganteschi tra la produzione e la commercializzazione attraverso una filiera integralmente controllata, che spesso si estende fino al punto vendita finale tramite negozi monomarca.

Le borse mondiali hanno accompagnato il cambiamento di paradigma con sostanziosi cali delle quotazioni, che spesso sono state amplificate da vigorosi movimenti ribassisti da parte di arbitraggisti che hanno puntato a guadagnare da uno sgonfiamento delle quotazioni internazionali. Apple ha perso più di 300 miliardi di capitalizzazione, per via del fatto che gran parte del suo prodotto è realizzato in Cina allargando nel tempo la sua presenza in India e in Vietnam trainata anche dalla delocalizzazione impostata dai grandi assemblatori cinesi come Foxconn o Luxshare o dalle coerane Samsung e LG.

Lo stesso è accaduto per Nvidia, leader nel computing grafico e nell’intelligenza artificiale, che ha perso 210 miliardi del suo valore di mercato dopo che Trump ha imposto dazi del 32% su Taiwan, dove l’azienda produce buona parte dei suoi semiconduttori. Conseguenze negative anche per le piattaforme di commercio elettronico come Amazon dove il 50% dei suoi venditori è cinese e sottoposti a dazio.

Un produttore di scarpe sportive come Nike che vende la maggior parte dei suoi prodotti negli Stati Uniti, il 95% di tutte le sue scarpe sono realizzate in Cina, Vietnam e Indonesia (colpita da dazi al 32%), mentre il 60% delle sue linee di abbigliamento sono prodotte tra Cina, Vietnam e Cambogia. Lo stesso vale per altri marchi di abbigliamento globali, da H&M a Adidas a Levi’s che hanno delocalizzato le produzioni tra l’Africa e l’Oriente.

Quali le conseguenze per l’Europa con i dazi Usa al 20%? Un simile livello non è affatto tragico, visto che le varie filiere produttive si sono già mosse per articolare una diversa politica commerciale, assorbendo gran parte dell’ammontare del dazio all’interno della filiera distributiva tra produttore, importatore e distribuzione finale. Ma il problema maggiore per l’Unione europea, per il resto già ampiamente evidenziato dalla stessa amministrazione americana, è che l’Unione non è un mercato completamente unico, visto che la regolamentazione europea è applicata in modo difforme tra i 27 stati, così come c’è un eccesso di regolamentazione e burocrazia che finisce con il fare aumentare i costi di penetrazione sul mercato europeo per le merci americane.

Più che strillare per i dazi Usa, la Commissione europea ed in particolare i suoi vertici farebbero meglio ad armarsi di forbici e tagliare gran parte di quelle 13.500 norme approvate a Bruxelles nel corso della Commissione Ursula Uno a fronte delle 3.000 approvate nello stesso tempo negli Usa. Soprattutto, come ha chiesto anche il governo italiano, serve cancellare quelle norme ideologiche come il Green Deal che aumentano artatamente i costi di produzione interna, finendo per renderla anticompetitiva sui mercati internazionali, incentivando così le importazioni, specie da quei paesi dove si pratica concorrenza sleale.

Ecco, i dazi Usa potrebbero costituire un bagno di realtà, con tutti i paesi costretti a guardarsi attorno e a superare posizioni che oggi non sono più giustificate e giustificabili. E le proposte che iniziano ad arrivare dai vari governi di attuare politiche reciproche a zero dazio potrebbe essere la prova che talvolta i modi duri e spicci sono più funzionali di quelli del politicamente corretto.

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